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«It's only Califuckingfornia man!»


Radiofreccia, 1998

L'intensità con la quale stiamo vivendo questo viaggio mi fa spesso pensare all’affermazione di Bonanza nel celebre film di Ligabue; deserti, montagne e oceano si alternano alle persone che incontriamo, con il risultato di vivere ogni giorno emozioni così diverse fra loro da non ricordare cosa siano i tempi morti.


Per strano che possa sembrare anche il passato mi appare compresso; prologo essenziale della storia che stiamo scrivendo, nella quale non c'è spazio per l'immobilità.
L'ambientazione che abbiamo scelto per la nostra avventura è perfetta, e in quest’ambiente così vario possiamo muoverci senza restrizioni apparenti, liberi di interagire a nostra discrezione con l'ambiente e con le persone.
Spesso, infatti, sono proprio loro a influenzare le nostre scelte, regalandoci nuove esperienze.
Così è stato a Joshua Tree, il Parco Nazionale immerso nel deserto del Mojave dove siamo giunti dopo la serata a Las Vegas.
Come per il resto della California anche JTree è uno spot molto selettivo; dagli avvicinamenti fino alla scalata vera e propria c'è da farsi un mazzo tanto in ogni momento. Le falesie che frequentavamo in Italia, con i comodi parcheggi a pochi passi dalla parete e le vie tracciate in piena sicurezza sono lontani anni luce.
E poi fa freddo, anche se siamo in un deserto. Il vento gelido che proviene dalle montagne della Sierra Nevada s’infila fra le formazioni rocciose che spuntano dal terreno, e la notte dobbiamo dormire con il triplo strato: vestiti, sacco a pelo e piumone.
In quest’angolo di mondo, punteggiato ovunque di alberi che sembrano scopini e rocce dai profili rotondeggianti, abbiamo arrampicato assieme ad alcuni climbers conosciuti quasi per caso in un campeggio. Una coppia di Canadesi in viaggio attraverso la California e due ragazzi provenienti dal Colorado, Ralph e Ron John. Li abbiamo incontrati quando ormai avevamo deciso di andarcene, ma sono bastati pochi minuti di conversazione perché ci invitassero ad arrampicare assieme, ed è bello ammettere di aver imparato molto grazie a loro. Come cucinare un marshmallow sul fuoco per esempio, e i primi rudimenti della scalata nelle fessure. In questo tipo di climb la prima volta non si scorda mai e così sarà anche per la nostra prima crepa, o crack: una via diagonale lunga circa trentacinque metri, da scalare incastrando i piedi e le mani fasciate nella fessura e utilizzandole come punti di appoggio. Mentre arrampicavamo Ralph e Ron John non hanno smesso un attimo di darci consigli e incoraggiamenti, e anche questa è una bella cosa da ricordare. Certe persone sembrano dotate di una straordinaria capacità d’interazione e danno l'idea di essere prive del filtro della diffidenza. Lo stesso che, di fronte a un invito inaspettato o una proposta bizzarra, mette la maggior parte delle persone sulla difensiva. Io non so da dove nasca questa predisposizione, se dal retaggio culturale di una nazione che non ha mai avuto guerre all'interno dei propri confini, o se invece abbia a che fare con l'ambiente del surf e del climb, diventando quindi una prerogativa di pochi e non di un intero popolo. 
Capisco però che è una condizione differente rispetto a quella in cui sono cresciuto.

Un'altra dimostrazione di questa particolare caratteristica l’abbiamo avuta la notte prima di partire da JTree. Eravamo in campeggio e stavamo pensando di andare a dormire quando Laura è tornata dal bagno tutta agitata, ha aperto la porta e mi ha detto: «Ho conosciuto dei ragazzi, ci hanno invitato ad andare a vedere una caverna o una roba simile, non ho capito molto bene. Andiamo?».
Tempo tre minuti e stavamo seguendo un gruppo di una quindicina di ragazzi, tutti più giovani di noi, che con le luci legate sopra la testa ci guidavano verso i margini del campeggio.
«Si può sapere dove stiamo andando?» Ho chiesto a uno di loro mentre camminavamo veloci lungo il sentiero.
«Al Chasm of Doom.» Mi ha risposto, senza aggiungere altro.
Ci abbiamo messo un po’ a capirlo, ma Chasm of doom significa, letteralmente, caverna della paura. E’ stato a quel punto che ho cominciato a rendermi conto della situazione: E’ notte, siamo nel bel mezzo di un deserto, circondati di estranei, non si vede una cippa, fa un freddo cane, ci sono i coyote e stiamo andando verso la Caverna della Paura; ci manca solo di scoprire che di essere circondati da un branco di Jacaklope e poi siamo apposto.
Saltando da una roccia all'altra abbiamo risalito i fianchi di un grosso cumulo di massi e poi ci siamo infilati in un percorso fra le rocce, che è andato via via restringendosi fino a permettere il passaggio di una sola persona.
Per un centinaio di metri circa abbiamo camminato in fila indiana, seguendo i riflessi delle torce contro le rocce. Poi abbiamo avanzato carponi e infine abbiamo strisciato sulla schiena per superare un imbuto creato da due massi giganteschi.
Oltre l’imbuto il sentiero si è allargato, e risalendo alcuni gradoni siamo arrivati in una grande terrazza affacciata sul deserto.
Sopra di noi, milioni di stelle e sotto di noi terra e alberi e sassi a riflettere la luce del cielo. Uno spettacolo indimenticabile, reso ancor più speciale dal fatto di essere frutto di un’esperienza per nulla pianificata; figlia di un invito istintivo che avremmo avuto più di una motivazione per rifiutare.
The Chasm of Doom, ci spiegano mentre scendiamo, è un percorso che i Local conoscono alla perfezione e attraverso il quale, di tanto in tanto, guidano gli amici: «Così, per essere sicuri che non venga dimenticato.»
Quando siamo tornati sul sentiero, ancora increduli dalla facilità e dalla naturalezza con la quale ci siamo trovati coinvolti in questa storia, due lampi hanno illuminato la notte. Con la coda dell'occhio sono riuscito a intravedere la scia di quella che mi è sembrata una stella cadente enorme e a quel punto tutti hanno iniziato a gridare e a indicare il cielo e ad abbracciarsi. Sembrava di essere allo stadio e quel meteorite un fuoricampo da hall of fame.
Ricordo quel momento anche perché, per la prima volta, ho intravisto i volti di quei ragazzini che avevamo rincorso nel deserto, e mi sono reso conto che fino allora avevamo seguito delle semplici ombre.

Il giorno dopo ci siamo rimessi in viaggio e da Joshua Tree ci siamo spostati a Carlsbad, una cittadina a nord di San Diego.
Prima di arrivare a Los Angeles ci siamo fermati a Seal Beach, ed eccoti che la storia si ripete: un tale si avvicina, ci dice quanto sia stiloso il nostro furgone, parliamo un per po’ di surf e finiamo con il passare tutta la giornata con lui. Prima ci invita a pranzo a casa sua e poi a fare un giro sul SUP lungo i canali di Newport Beach.

A questo punto è d'obbligo porsi delle domande, perché tutta questa storia di essere così aperti verso gli sconosciuti non mi torna proprio; ma sti tizi, che con tutta questa facilità includono gli estranei nei loro programmi, non hanno avuto una nonna, una mamma o anche solo la televisione, che li abbia cresciuti mettendoli in guardia dagli sconosciuti? 
Non hanno paura che dietro alle apparenze possa nascondersi il pericolo?

Soprattutto, perché quest’atteggiamento continua a sorprendermi? Ad apparirmi in qualche modo insolito, quando invece dovrebbe essere normale?

Non mi sono dato una risposta a queste domande, e a dire il vero ho anche smesso di cercarla, che tanto, anche a saperlo, la sensazione di essere finito in un mondo parallelo non passerebbe comunque.
Forse aveva semplicemente ragione Christopher McCandless, (Into the Wild, 2007), quando diceva che «La felicità è reale solo quando è condivisa».
O magari aveva ancora più ragione Ralph, quando, mentre arrampicavo la fessura nella Real Hidden Valley, cercando di incoraggiarmi, se n'è uscito con una spiegazione perfetta dell'insieme di tutte le esperienze che stiamo vivendo:

«It's only Califuckingfornia man!»

Keep on Rock it @ califuckingfornia!

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